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L'esame degli esperti in biblioteca è partito dal primo pilastro della banking union, quello della supervisione unica: esso esiste, ma non sembra essere neutrale tra tipi di banche e tra un Paese e l'altro. Finora, in un anno e mezzo di Bce, ci si è focalizzati sulle sofferenze, ma molto meno sul rischio di mercato e su quello legale, molto presenti in Francia e Germania. Con questo approccio l'Italia è sfavorita.
L'idea di fondo è stata quella di introdurre una terza via tra il salvataggio totale delle banche e la risoluzione drastica, lasciando che un istituto in crisi continui ad operare, evitando il trauma del fallimento, ma nello stesso tempo facendo sì che siano i manager o gli azionisti a pagarne il prezzo, senza intaccare i risparmiatori e tutto il sistema. Lasciar fallire una banca, come nel caso di Lehman Brothers, infatti, dà vita a un effetto contagio sull'intero sistema economico e finanziario. Secondo Baglioni, però, i principi di risoluzione sono stati disastrosi, a causa della loro applicazione retroattiva e dell'estensione ai clienti al dettaglio.
Alla domanda se l'unione bancaria abbia raggiunto i suoi scopi, lo studioso della Cattolica ha fatto notare come essa, effettivamente, sia riuscita ad abbassare i costi fiscali dei bailout, ma con effetti collaterali di instabilità sistemica e di nervosismo dei mercati. Il problema è che non è stato spezzato il legame tra rischio bancario e rischio sovrano: la ricaduta sui bilanci statali, in questo modo, rimane inevitabile.
E adesso? Sono state tolte le regole di supervisore nazionale e sono state sostituite con un sistema incompleto. Come si può uscire dal guado? Bisogna cambiare le regole, le banche devono riacquistare la fiducia dai consumatori, la vigilanza deve concentrarsi sugli strumenti di prevenzione e serve una governance centrale più forte.