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Come si fa a disegnare un sistema di welfare adeguato ai cambiamenti sociali ed economici? Luigi Guiso, professore di finanza all’Einaudi Institute, ha una proposta: oggi si perde facilmente il lavoro ed è difficile «reinventarsi». I sussidi di disoccupazione aiutano se c’è un ciclo negativo, non se la propria professionalità è spazzata via dall’innovazione. Serve una programmazione sociale che ci fornisca un portafoglio di competenze ampio. Avere più abilità, saper fare più cose.
Molti contadini e pastori sardi impiegati nel petrolchimico, dopo la crisi sono tornati a fare ciò che sapevano: agricoltori e pastori. Un piccolo esempio di resilienza. «In passato si studiava per 20 anni e poi si lavorava con quelle competenze per altri 40 – ha detto il professor Guiso – mentre oggi nelle stesse imprese dobbiamo imparare più cose e fare scambi di professionalità e formazione tra aziende per essere pronti in casi di improvvisi choc economici».
Lorenza Antonucci, esperta di politiche sociali e ricercatrice all’Università di Birmingham, ha evidenziato come le ricerche dell’ateneo britannico indichino che molti «brexiteer» arrabbiati avevano comunque un’istruzione media. Non poveri ma classe media. Che non necessariamente ha perso il lavoro, ma deve lavorare troppo per guadagnare poco, è insoddisfatta del sistema e dei capi, ha un pessimo rapporto tra tempi di lavoro e di vita, vede peggiorare i servizi di welfare: si chiama «job dissatisfaction». «Il populismo in paesi come Olanda, Germania e Francia è molto diffuso anche tra i giovani. Soprattutto il populismo di destra è appannaggio delle classi basse come di quelle ad alto reddito, mentre quello di sinistra, meno autoritario, non conquista le fasce ad alto reddito».
L’economista Italo Colantone dell’Università Bocconi ha aggiunto un altro elemento: il populismo ha cause culturali ed economiche e non è una tendenza di oggi. Già a fine anni ottanta e inizio anni novanta ci sono i prodromi. Una pace sociale è stata mantenuta finché il mercato unico ha dato benefici a tutti, alle élite economico-politiche e alla classe media, che aveva un certo benessere. Un contratto sociale implicito che oggi non c’è più. «I perdenti della globalizzazione chiedono redistribuzione e protezionismo. Il nazionalismo economico non è la soluzione giusta. Forse domani potrà avere successo un partito politico che coniughi apertura, multilateralismo e redistribuzione del reddito».