
Si intitola Autobiographyla nuova creazione di Wayne McGregor per la sua compagnia ed è un lavoro per dieci danzatori partito da uno studio scientifico. Affascinato dalla nozione che ogni cellula del corpo contenga il progetto biochimico della vita di ciascuno, McGregor ha chiesto a due genetisti di sequenziare il suo genoma. Questa sequenza è stata poi convertita in un algoritmo al computer il quale ha determinato l’ordine delle 23 sezioni danzate dello spettacolo Autobiography, il cui debutto mondiale è avvenuto il 4 ottobre a Londra.
Uno spettacolo in perfetto stile McGregor, sostanzialmente astratto, dove i cenni autobiografici – il coreografo ha trasmesso ai danzatori elementi del suo passato, da memorie personali a opere d’arte che l’hanno influenzato – si innestano senza troppa definizione (solo suggestioni) nella danza concitata e ad alto tasso di energia del coreografo britannico, sebbene qui la sua coreografia trovi anche una sorprendente vena più meditativa ed espressiva. Lo si comprende subito all’inizio dello spettacolo, nella sezione denominata Avatar, in cui un danzatore solo, avvolto in una diradata nebbia si muove fluido, sospeso. E così via passando dalla sezione natura, istinto, nutrimento, invecchiamento, quest’ultima caratterizzata da duetti e sorprendenti configurazioni coreografiche.
Ottanta minuti di danza cesellata per una produzione esteticamente impeccabile che si avvale delle scene di Ben Cullen Willeams, inventore delle strutture di metallo e lattice sospese sulla testa dei danzatori; del disegno luci della fedele collaboratrice Lucy Carter; dal sound elettronico di Jlin, lirico e alienante al tempo stesso.