Seminare nel deserto.
…Io vengo dal deserto, e ho visto mio nonno seminare nel deserto. Non so se abbiate idea di cosa sia seminare nel deserto. È seminare su una terra arida e poi aspettare. E se cade la pioggia, si farà il raccolto. Non so se abbiate mai visto il deserto dopo la pioggia. È come la Bretagna! Un giorno camminate su una terra completamente brulla e poi, piove appena, e vi chiedete come sia potuto accadere ciò che è sotto i vostri occhi: fiori, frutti, … Tutto semplicemente perché i semi erano già lì
… Questa immagine mi ha veramente segnato quando ero bambino. E quindi bisogna seminare!
Anche nel deserto bisogna seminare! È in questo modo che io vedo il mio lavoro. Io semino e, se piove domani, bene, se no almeno i semi sono là. Che cosa accadrebbe se io non seminassi? Su cosa cadrebbe la pioggia? Che cosa crescerebbe: le pietre? È questo l'atteggiamento che io adotto: seminare nel deserto.
(Moncef Marzouki, maggio 2010)
Seminare nel deserto. Una metafora straordinariamente azzeccata - sottolineano gli autori - per descrivere come può fiorire il "nuovo" in una realtà complessa, intimamente auto-riferita, indisponibile a scombinare i "precedenti", comunque titolare di privilegi pressoché intoccabili. Una metafora provocatoriamente realistica. Obliqua, nel senso di "non aggredibile" con
semplificazioni giuridiche e mediatiche che si arenano nelle secche dell'effetto annuncio, o peggio nel risentimento anti-istituzionale. Una metafora obliqua, perché giocata di sponda, nella convinzione che il fine da raggiungere sia troppo ‘intrattabile' per tentare di aggredirlo di punta, a tutto campo.
Il deserto è sconfinato, saldo nelle sue facce di indifferenza al tempo che corre, di sabbia che non regge il peso, di venti che spostano e rispostano le dune. Certo ci sono le oasi. Ma sono rare, frutto di laboriose combinazioni tra natura e ingegno, comunque incapaci di rompere l'interminabile distesa arsa che le circonda. Seminare e attendere. Seminare per creare il potenziale di vita nascosto sotto la sabbia. Attendere che i vapori, trasportati da chissà dove, incrocino la corrente fredda che li trasforma in pioggia. L'imponente macchina pubblica italiana, come il deserto, non è scalfibile per editto, quasi fosse un unicum compatto e obbediente agli stimoli. Non è così: basta guardare gli ultimi
quaranta anni di riforme mancate.
Il cambio d'epoca ha bisogno di un cambio di approccio. Ha bisogno di una strategia finalmente obliqua. Questo significa iniettare nel suo "organismo" gli enzimi del cambiamento, di un cambiamento virtuoso. In questa prospettiva, le sette questioni chiave introdotte da questo volume possono forse essere di qualche utilità. Poi è necessario
attendere che piova. Attendere le scelte illuminate di un riformatore, generato da uno scatto d'orgoglio della politica. Attendere che gli effetti della crisi economica ci rendano consapevoli che riproponendo gli stessi schemi si ottengono gli stessi risultati. Come diceva Einstein, solo gli stolti si aspettano risultati diversi facendo le cose sempre alla
stessa maniera. Attendere una indignazione morale e civile che non produca inutile e rabbioso rancore, ma la voglia di reagire e di cambiare pagina. Attendere un mix di tutto questo che sappia convertire l'egoismo e la parzialità dei piccoli interessi nella generosità e nell'intelligenza delle grandi rinascite collettive. Non si tratta dell'attesa che accada un
miracolo che porti il nuovo, il cambiamento. Si tratta di una attesa vigile, attenta, partecipata, alla quale si affianca un costante lavoro "di sponda", appunto. Un lavoro che aggredisca il problema da più lati contemporaneamente, e mai frontalmente; mai direttamente. Pena il già dimostrato fallimento di qualsivoglia azione messa in essere per
portare l'innovazione e il cambiamento voluti. Per pensare la riforma dell'amministrazione pubblica italiana, c'è bisogno, quindi, di una metafora che non è stata ancora scritta. Una metafora che potrebbe, in chiave politicoburocratica, ispirarsi al "Gattopardo": rimuovere l'atavica abitudine italiana di voler cambiare tutto senza fare i conti con gli anticorpi, strutturali e apparentemente inattaccabili, che inibiscono qualunque cambiamento. Tomasi di Lampedusa, nel suo illuminante romanzo, non aveva pensato a un approccio obliquo alle riforme della Pubblica amministrazione italiana, ma ne aveva colto il senso più attuale e profondo. Non è necessario aggiungere altre parole a quanto Moncef Marzouki - politico tunisino in esilio e attivista per i diritti umani - ha scritto sul seminare nel deserto. È la metafora del cambiamento, che è possibile anche se difficile. Ecco in questo libro una manciata di "semi nel deserto". Forse oggi la terra è arida e non ci sono nuvole all'orizzonte che facciano intravedere un'imminente pioggia. Eppure la semina deve continuare. Se piove domani, bene, se no almeno i semi sono là.
La resistenza al cambiamento
La resistenza al cambiamento e all'introduzione di qualsiasi logica riformatrice trova il suo motivo di fondo nella complessità della Pubblica amministrazione. E' chiaro che il cammino delle riforme deve imboccare percorsi nuovi e diversi rispetto al passato, tenendo ben presente i molti elementi dinamici di tale complessità. E' proprio in quest'ottica che si propone la carta della "obliquità"e del "giocare di sponda": puntare all'obiettivo "riforma" attraverso tentativi diversificati, in continuità verificati e aggiustati, che interessino la pluralità dei soggetti e dei fattori che costituiscono
la macchina complessa della Pubblica amministrazione. Tentare piccoli cambiamenti possibili, sperimentandoli in estensione o concentrandoli sui punti chiave. E se ci sono successi anche puntiformi, valorizzarli estendendoli ad altri settori, fino – auspicabilmente - all'intera macchina burocratica.
Abbiamo a che fare con sistemi complessi, le cui strutture possono essere capite solo in maniera imperfetta e l'ambiente nel quale ci muoviamo contiene delle irrisolvibili incertezze. È per questo che si impone l'approccio obliquo.
Le sette questioni
Tenendo tutto ciò presente, sette sono le questioni che vengono poste e sviluppate nel libro.
Prima questione. Il dilemma della Pubblica amministrazione nella società moderna: cosa essere.
Seconda questione. Il bene pubblico come dovere individuale. Il cittadino attore e giudice della buona amministrazione.
Terza questione. La riscoperta della mission. Ogni scelta è un programma e ogni programma è un patto.
Quarta questione. Agire sul cambiamento. Fare leva sulla responsabilità e sull'accountability.
Quinta questione. Ricominciare dal capitale umano e investire sul civil servant.
Sesta questione. La dirigenza pubblica. Più competenza. Più riconoscimento. Più valutazioni appropriate.
Settima questione. Pluralità di attori. Pluralità di fattori. Possibili convergenze.
Si può concludere che questo libro è "obliquo" come l'approccio che lo ispira. Non è un trattato sistematico. Si sviluppa anch'esso in un "gioco di sponda", rimbalzando da spunti teorici, a note storiche, a ipotesi di soluzione, a ritorni su concetti per precisarli ulteriormente, a citazioni autorevoli, a provocazioni che rasentano l'utopia ma che possono aprire nuovi orizzonti. -