“Il cow boy del far web”, come lo ha definito il presentatore Claudio Ruatti, ha mostrato diversi esempi di bufale social, cercando in ogni post gli indizi che testimoniano la falsità dell'informazione. “Le bufale non sono un fenomeno di internet; la novità odierna è che esse sono diventate un vero e proprio modello imprenditoriale, perché sono legate alla pubblicità online e talvolta finiscono anche nei giornali seri'”, ha spiegato il detective informatico.
A questo proposito Paolo Attivissimo ha raccontato una sua indagine tecnica fatta per capire chi stia dietro ai siti “specializzati” in notizie false, andando a scovare la logica di profitto pubblicitario che guida le “fabbriche di fandonie”. Tra i fenomeni attira-pubblicità – e quindi legati alla diffusione di bufale - il giornalista ha annoverato le notizie “clickbait”, pensate appositamente per attirare internauti, gli algoritmi social, premianti per alcune news false e il riconfezionamento ingannevole degli articoli.
“La manipolazione lavora su tantissimi livelli, questo dobbiamo tenerlo presente se vogliamo orientarci e combatterla”, sottolinea. Chi ci può salvare quindi dalla disinformazione? “I bravi giornalisti, quelli che stanno nelle redazioni e sono pagati. Anche se qualche volta il meccanismo di protezione si inceppa, facendo perdere alla categoria molta credibilità”, ammette Attivissimo. “Questo è particolarmente grave perché la maggior parte delle indagini richiede solo cinque minuti di controllo e perché anche sui siti autorevoli le notizie false spesso sono le più cliccate”. “Internet pubblica tante fake news ma allo stesso tempo è un antidoto al loro proliferare. Il problema è che inventarsi una bufala richiede pochissimo sforzo, fare un'indagine seria, invece, costa fatica”, ha concluso.