
Come illustrato dal soprintendente Sandro Flaim, poiché era semplicemente impossibile un recupero totale dell'intero apparato di opere realizzate dall'Impero asburgico lungo i confini del Trentino, si è intervenuti sugli aspetti più significativi, per ricordare quel periodo di fortificazione del territorio, durato mezzo secolo e culminato con lo scoppio del Primo conflitto mondiale. Di fortificazioni come crinale temporale tra l'Ottocento e la società uscita dalla Grande Guerra, ancora viva nella memoria collettiva, ha parlato anche il provveditore del Museo Camillo Zadra.
Il Trentino, posto al centro dell'arco alpino meridionale, è sempre stato uno degli assi principali di comunicazione e transito fra l'Europa centrale e il bacino del Mediterraneo. Per questo il territorio è stato densamente fortificato con opere di sbarramento e di controllo collocate lungo vie e percorsi, sin dalle epoche più antiche, dalle rocche preistoriche ai castra romani, alle chiuse e ai castelli medievali.
Particolare importanza strategica nel contesto europeo, il Trentino lo raggiunge però nel periodo intercorrente tra la seconda metà del XIX secolo e la prima guerra mondiale, nell'ambito dell'Impero austro-ungarico, dopo che con la seconda e terza guerra di indipendenza, gli adiacenti territori della Lombardia (1859) e del Veneto (1866) furono annessi al Regno d'Italia. La prima fase fortificatoria riguardò la realizzazione di forti di prima generazione, molti con funzioni di tagliate stradali: si trattava di opere con murature frontali in pietra, in grado di resistere alle artiglierie che all'epoca utilizzavano proietti sferici, in uso fino ai primi anni del 1860. I forti erano adatti per resistere ad attacchi frontali ma non a bombardamenti dall'alto: in pochi anni i progressi delle artiglierie resero infatti questi forti inadeguati. Intorno al 1880 iniziò una nuova fase fortificatoria: i forti di seconda generazione vennero realizzati sulle sommità di alture e dovevano resistere alle nuove artiglierie attraverso appunto la morfologia del territorio; si trattava di postazioni protette per artiglierie all'aperto, che però divennero obsoleti in breve tempo. I forti di terza generazione vennero realizzati attorno al 1890: avevano spesse muratore in pietra e copertura in calcestruzzo, con gli armamenti principali appostati in casematte corazzate e non più all'aperto. Agli inizi del Novecento si passò alla quarta generazione: si trattava di forti realizzati sotto terra e in roccia, con corazzature in cemento armato rinforzate da putrelle in acciaio e artiglierie in cupole corazzate girevoli. Infine, fra il 1914 e il 1915, vi fu la quinta generazione: forti interamente in roccia, con le sole bocche di fuoco che affioravano in superficie.
Nel volume "Il recupero dei forti austrungarici trentini", in 255 pagine ricche di informazioni e saggi si ripercorrono le vicende storiche e architettoniche delle macchine da guerra del Primo conflitto mondiale: da forte Cadine, il cui intervento di restauro si è concluso con la ricomposizione della forma fortificata della tagliata stradale, al forte Colle delle Benne, posto su un terrazzamento naturale affacciato sul lago di Levico; da forte Pozzacchio, mai ultimato, a forte Dossaccio, nel parco di Paneveggio; da forte Corno, disteso lungo la morfologia del terreno, alla batteria Roncogno situata a passo Cimirlo all'inizio del frequentato percorso di visita del monte Celva; da forte Tenna, che non ha mai partecipato ad azioni belliche, ai forti Presanella, Tonale e Mero, che sbarravano il passo del Tonale; per concludere con la fortezza del Brione, al centro della piana del Sarca, un sistema complesso affacciato sul Garda.
Riprese a cura dell'Ufficio Stampa -