«Non mi pongo limiti, sento la vita che mi sorride». Gioia contagiosa nelle parole di Gimbo Tamberi e sorriso incontenibile disegnato sul volto del campione olimpico italiano di salto in alto. La sua medaglia d’oro a Tokyo lo scorso primo agosto, in una giornata storica per l’atletica azzurra (con l’incredibile oro di Jacobs nei 100 metri) è stata il premio alla costanza, alla dedizione, alla capacità di non mollare mai, anche dopo quel beffardo infortunio al tendine che nel 2016 lo privò delle Olimpiadi di Rio, in Brasile. «Per 5 anni non ho fatto altro che pensare alle Olimpiadi» ha raccontato Gimbo, rievocando il suo attimo vincente in quella notte magica, che ha coronato il sogno di una vita.
«Pensate che nell’ultima gara prima delle Olimpiadi – ha confessato Tamberi – a Montecarlo, 20 giorni prima di Tokyo, ho fatto forse il mio peggior salto della carriera… Ancora oggi faccio fatica a “realizzare” che ho vinto!». Guardando l’asticella a 2,37 metri allestita sul palco del Festival, Gimbo ha sgranato gli occhi: «Anche a me sembra troppo alta». Un successo nato dal gioco di squadra. Tamberi, capitano azzurro dell’atletica, si è "caricato" grazie ai successi dei compagni. Lui, che trae energia dall’ambiente circostante, costretto a gareggiare in uno stadio vuoto per la pandemia. «Veder vincere gli altri ti fa superare i tuoi muri mentali» ha osservato Gimbo. Quel giorno in gara ero un automa». Poi la gioia e l’ex-aequo. «Quando ho capito che Jacobs aveva vinto, forse prima di lui, non ho resistito e gli sono saltato addosso».
Tamberi si è anche soffermato sulla precisione matematica del suo sport: angoli calcolati al millimetro, biomeccanica. Poi «in gara prevale l’intuizione». Tre generazioni di campioni a confronto, quando a congratularsi con lui sono saliti sul palco l’americano Dick Fosbury, inventore del salto in alto come lo conosciamo oggi, ribattezzato col suo nome: «A scuola in Oregon ho imparato la primitiva sforbiciata e lo scavalcamento ventrale. Poi, quasi per caso, ho visto che l’inarcamento e correre in modo circolare nella rincorsa favoriva l’efficienza del salto. Ma, chissà, in futuro qualcun altro inventerà un nuovo stile…». Sotomayor, negli anni novanta puntava molto più sulla forza e meno sulla velocità e leggerezza: «Non pensavo che il mio record di 2,45 del 1993 a Salamanca avrebbe resistito per 28 anni e dura ancora».